Architettura contemporanea a Berlino: anche l’occhio vuole la sua parte!
“Ma dove sono finite tutte quelle belle gru di una volta?” ha commentato una mia amica tornata dopo qualche tempo a Berlino: desolata, guardava una città dove i buchi sono stati riempiti e i cantieri chiusi, ma dove la promessa di un’architettura e un’urbanistica lungimiranti non è stata sempre mantenuta, specialmente in quelle zone dove non gira il turista, ma vive il cittadino: ai masochisti architettonici consiglio una passeggiata a Warschauerstrasse per “godere” dell’affastellamento soffocante di centri commerciali, parcheggi e palazzoni lungo i binari della ferrovia.
Animati dallo stesso pragmatismo con cui sfoggiano calzino e birkenstock, gli amministratori tedeschi hanno sempre detto NO a una “Berlino: parco giochi per architetti”, vagheggiando invece una città non frastornante, non eccitante, ma dove fosse comodo vivere.
Pungolati dalle continue grida: “mancano case!”, “gli affitti sono troppo alti!”, “la speculazione immobiliare non ci lascia abitare in città!”, hanno poi lasciato che la suddetta speculazione riempisse di costosi complessi residenziali i lotti più strampalati (con tutti quei terrazzini appiccicati che fanno tanto ecomostro e che invece forse a loro ricordano fiesta e sangria nel sud della Spagna… in effetti proprio per loro cementificata).
Quella che è mancata alla mia amica è senz’altro la vibrazione entusiasmante di una città in metamorfosi, ma non si possono certo tenere aperti i cantieri in eterno (a eccezione, a quanto pare, di Alexanderplatz che va rifatta ogni tre mesi come una collezione di Zara).
La “tabula rasa” di Berlino anni novanta però avrebbe permesso agli architetti e agli urbanisti di confrontarsi con due valori estetici che hanno sfidato da sempre le arti plastiche occidentali e che, una volta interpretati, hanno segnato il passaggio dal classico al contemporaneo: movimento e vuoto.
Non si tratta solo di una questione estetica, perché movimento e vuoto preludono a un modo diverso di vivere lo spazio urbano, più vicino alle trasformazioni sociali, culturali e civili che stiamo vivendo.
Quando accompagno le persone nei miei tour dedicati all’architettura contemporanea indico sempre il Band des Bundes, il nuovo quartiere governativo, come un bell’esempio di vuoto e movimento applicato all’architettura, dove la retorica del sito non schiaccia mai la nostra presenza. Dalla nazione dove è nata la Bauhaus, che insegnava danza agli architetti per far capire loro come si muove un corpo nello spazio, non mi aspetterei di meno. Oggi invece Gropius si rigira nella tomba.
La Berlino contemporanea è davvero un paradiso per i succitati masochisti architettonici?
Ti porto tre esempi di edifici recentissimi dove gli architetti hanno sfidato (e forse superato) il concetto di “cubetto” tanto amato dall’amministrazione locale (tutti approvati dalla mia amica) e vi chiedo magari di segnalarmi altri spazi della Berlino contemporanea che NON vorremmo ribombardassero al più presto (tipo il nuovo castello…)
Cube Berlin (Studio 3XN, 2020)
Il nome è un programma: un cubo. Ci si potrebbe vedere dell’ironia, ma, vista la storia tormentata del sito, forse si tratta di rassegnazione. Il progetto parte a inizio duemila, ma dopo una serie di fallimenti a cascata, solo nel 2007 lo studio danese lo prende in mano, e lì, secondo me, si sono detti: “facciamo un cubo così siamo sicuri che i tedeschi ce lo approvano”.
Ma questo edificio “a dado” poi contraddice con il suo involucro di vetro sfaccettato l’immobilismo della forma, anzi stupisce continuamente l’occhio con un gioco di riflessi, angoli e spazi negativi. All’interno poi gli architetti hanno voluto creare una modernissima infrastruttura “smart”, dove un’intelligenza artificiale controlla porte, ascensori, riscaldamento e rintraccia persino le persone dentro l’edificio (tutto gestibile con una app).
Ora, essendo io cresciuto a film anni ottanta, so che dare a un computer il controllo su porte e ascensori è sempre preludio a un massacro senza scampo, quindi il Cube preferisco mostrarvelo solo da fuori.
Futurium (C.Richter & J. Musikowski, 2019)
Siamo sempre ad Hauptbahnhof, la stazione centrale di Berlino, una delle zone più bistrattate dagli urbanisti: si era partiti così bene con la stazione trasparente, dove tunnel di cristallo accompagnavano visivamente lo sfrecciare dei treni e la vista sull’Hamburger Bahnhof illuminato da Dan Flavin.
Poi qualcuno ha perso il controllo: hotel a cubetto hanno occultato il movimento sui binari e un condominio ha coperto le luci del museo. Lì, in un buco tra il ministero dell’istruzione e una multinazionale, è stato terminato, appena prima della pandemia, il museo dedicato alla tecnica, alla natura, all’umanità del mondo che verrà: il Futurium.
Chiaramente la missione dell’edificio ha inspirato la sua forma: la struttura a cantilever crea e copre al tempo stesso una piazzetta attrezzata che invita le persone a raccogliersi e stare insieme, dimenticando le tristi atmosfere degli uffici tutt’intorno.
Enormi finestre panoramiche ne alleggeriscono il peso, mentre una copertura di 8000 piastrelle in vetro colato, luccicando nel meteo cangiante di Berlino, trasforma continuamente la forma del palazzo, paragonato per questo a una nuvola.
Sul tetto è stato allestito il “Solare Meer” una distesa di pannelli fotovoltaici che devono garantire l’autonomia energetica del Futurium, ma che, a sorpresa, diventano anche scenario di una affascinante passeggiata per chi visita il museo: una “skywalk” che ci permette di gettare lo sguardo sui panorami più belli (e più brutti) di Berlino.
Axel Springer Neubau (Rem Koolhaas, 2020)
A pochi metri da Check Point Charlie si trova lo “Zeitungsviertel”, il quartiere dei giornali: un sito che oggi raccoglie tutti i palazzi delle Edizioni Axel Springer intorno ai nuovi uffici firmati da Rem Koolhaas.
Anche qui funzione e forma si sposano alla perfezione, accontentando solo apparentemente la passione dei tedeschi per il cubo: il colossale blocco dell’edificio è scavato da una favolosa vetrata a effetto optical, che spezza masse e luci come farebbe un geode cristallino e prezioso. All’interno si apre un atrio mozzafiato, alto 45 metri, su cui si affacciano tutti gli uffici, aperti e collegati da ponti sospesi: nuove forme di lavoro creativo e collettivo, unite alla digitalizzazione di tutti i mezzi di comunicazione e alle infinite, possibili metamorfosi dei media hanno inspirato l’architetto olandese, che ha confezionato uno spazio complesso, pensando a tutti i movimenti possibili dei corpi che lo abitano.
La bella notizia è che le Edizioni Axel Springer hanno deciso che parte dei loro spazi sarà aperta anche al pubblico, che potrà così contribuire ad animare questo edificio simbolo di libertà e co-partecipazione.
E per chiudere… il cantiere più atteso (e criticato): il Museo del 20° Secolo (Herzog & de Meuron, ?)
Come avrete capito Berlino non è un più una città per umarèl (vedi nota), ma alcuni cantieri da sorvegliare ancora ci sono, ad esempio al Kulturforum dove Herzog & de Meuron stanno costruendo il loro museo in mezzo a due capolavori dall’architettura contemporanea: la Neue Nationalgalerie di Mies van der Rohe, eleganza del vuoto, e la Filarmonica di Hans Scharoun, tutta movimento.
Ovviamente quando ci si espone su un palco così prestigioso le critiche piovono da tutte le parti. Dato che non è ancora finito, io rimango in fremente silenzio, la mia amica invece lo ha liquidato con “sembra una stalla”. In effetti quando, nel 2016, il duo svizzero ha vinto il concorso internazionale molte sono state le richieste di modifica.
Ora che i lavori sono cominciati e il progetto non pare molto diverso mi affido alla versione del loro ufficio stampa che lo ha definito: “un fienile pieno di luce” (la mia amica ne sa…).
A noi non resta che aspettare, perché spesso proprio i progetti più criticati sono diventati simboli delle città che li ospitano, e intanto continuare a cercare in questa Berlino fatta, rifatta, stirata, liftata un po’ di autenticità: spazi che non solo non feriscano il nostro sguardo ma ci lascino vivere, e bene.
Nota finale: “Umarèl”, dal dialetto bolognese “omino”, “pensionato”, è una parola oramai assolutamente italiana visto che è stata inserita nel dizionario Zanichelli con la seguente definizione: “pensionato che si aggira, per lo più con le mani dietro la schiena, presso i cantieri di lavoro, controllando, facendo domande, dando suggerimenti o criticando le attività che vi si svolgono”. Ovviamente la mia amica è di Bologna!