22 aprile 1945: la liberazione del KZ Sachsenhausen
La sentivano nell’aria quell’anno i prigionieri: non la primavera, che stentava a fiorire sui campi calpestati da migliaia di zoccoli, ma l’Armata Rossa che si avvicinava sempre di più al Campo di Concentramento di Sachsenhausen e finalmente tra il 22 e il 23 aprile li liberava. Ma non tutti. Perché anche l’ultima pagina della storia dei campi di concentramento è truce e quanto mai confusa.
Quando i reparti avanzati delle truppe sovietiche e polacche arrivano al lager, dentro ci sono solo 3.400 prigionieri: i più malati, i più denutriti, i più stanchi. Il giorno prima ce ne erano quasi 36.000.
Dove erano finiti tutti?
Spesso i viaggiatori che arrivano a Berlino non sanno neppure che a pochi chilometri dalla capitale tedesca c’era uno dei più grandi campi di concentramento del Terzo Reich: KZ Sachenhausen, il campo della “geometria del terrore totale” come lo definiva Heinrich Himmler.
Sicuramente la sua fama è offuscata dal numero dei morti dei campi di sterminio orientali, sopra tutti Auschwitz, ma è proprio qui invece che si trovava la dirigenza di tutto quel complesso sistema di lavori forzati, torture, paura e morte che ha sostenuto l’economia, la società, l’essenza stessa del Terzo Reich. Qui si creavano le fondamenta dell’orrore.
Ripercorrere tutta la storia di Sachsenhausen è difficile anche durante una visita guidata, ora voglio solo raccontare gli ultimi giorni della sua gestione nazista (perché il campo continuò a funzionare come prigione sovietica fino al 1950) soprattutto per onorare tutti quei sopravvissuti che, per anni, ogni 22 aprile sono voluti tornare, sulle loro gambe sempre più anziane, a deporre un fiore per i compagni che non ce l’hanno fatta.
Una cerimonia commovente che purtroppo ha un nemico invincibile: il tempo. Dopo più di settant’anni da quella terribile, meravigliosa primavera il numero dei testimoni è sempre più esiguo ed è quindi compito delle generazioni successive, e non solo dei loro figli e nipoti, conservare e proclamare la memoria.
Già dall’autunno ’44 la dirigenza delle SS si stava ingegnando su come evacuare i campi e disfarsi dei prigionieri. I loro piani, a volte spietati a volte dementi, sembrano tutti irrealizzabili, e gli ordini che arrivano da Berlino confusi e contraddittori: si proponeva di bombardare i campi, ma con quali bombe? Con quale aviazione? Oppure di condurre tutti i prigionieri al Mare del Nord per annegarli.
A un certo punto arriva addirittura l’ordine di migliorare le condizioni di vita dei prigionieri, specie se ebrei, specie se hanno parenti in America, con la speranza di minimizzare le colpe e ottenere uno “sconto” sulle riparazioni di guerra. In realtà quello che interessava di più alle altissime cariche naziste era, in quel momento, salvare la pellaccia e soprattutto il malloppo.
E così i capi dei campi di concentramento, sempre abituati ad aspettare ordini firmati da un superiore (e scaricare così le proprie colpe su un ordine ricevuto dall’alto), devono un po’ improvvisare.
Sappiamo che la Croce Rossa internazionale aveva più volte chiesto di subentrare nella gestione del campo prima che arrivassero i russi, dando ai nazisti il tempo di scappare, ma salvando quante più vite possibili.
Invece il direttore di Sachsenhausen ha altre idee. Quali, esattamente, non lo saprà mai nessuno. Sta di fatto che il 21 aprile, mentre si udivano distintamente le artigliere nemiche e il cielo rosseggiava di fuochi, ordina a tutti prigionieri ancora in grado di camminare di fare i bagagli e partire, di corsa, dietro la colonna delle SS in fuga (loro in macchina o in bicicletta però).
Correre è ovviamente impossibile. I prigionieri, stremati e affamati, abbandonano le coperte, le tazze, pesa tutto troppo nelle loro braccia stanche. Sanno solo una cosa: non devono morire perché la salvezza è dietro l’angolo e, dopo avere resistito così a lungo dentro il campo, sarebbe assurdo andarsene poche ore prima della libertà. Purtroppo per migliaia di loro non fu così, e quella fuga disperata, senza meta, si trasformerà in un’altra pagina di orrore nazista nota come Todesmarsch: la marcia della morte.
Chi non riusciva a stare al passo, chi cadeva, chi si fermava veniva ucciso dalle SS, spesso con il calcio del fucile per non sprecare munizioni. La sera ci si accampava sulla terra bagnata, non si potevano accendere fuochi e non veniva dato mai niente da mangiare. La Croce Rossa li inseguiva disperatamente cercando di distribuire pacchi di viveri, medicine e di salvare i malati.
Un caos che dilagava nei boschi dei Brandeburgo, dove le colonne dei prigionieri che arrivavano dai campi limitrofi si aggregavano, lasciando alle loro spalle una scia sempre più lunga di cadaveri.
La retorica della DDR amava raccontare delle buone donne di quella che sarebbe diventata la Germania est che avrebbero sfamato quei poveretti in marcia, i testimoni invece ricordano solo i bambini che li insultavano lungo le strade – a loro era sempre stato detto che chi era chiuso nel campo di concentramento era cattivo o geneticamente sbagliato -, porte e finestre sbarrati. Uno di loro rammenta un’anziana che provò ad allungare del pane e che per questo fu brutalmente picchiata dalle SS.
Per liberarsi del fardello di quei 33.000 corpi stanchi, le SS arrivano ad allestire una specie di ufficio in mezzo alla strada, dove un soldato distribuiva solo ai prigionieri di cittadinanza tedesca il modulo di Entlassung, il rilascio ufficiale.
In fondo i nazisti sono stati il più grande esempio di burocrati del male, e anche nella loro catastrofe non possono fare a meno di timbri e scartoffie. Ma nonostante ciò la massa dei prigionieri è enorme, ed è evidente che non potranno andare da nessuna parte se insistono a portarli chissà dove con sé.
La più grande colonna proveniente da Sachsenhausen, circa 18.000 uomini, si accampa nella foresta di Below. Lì i prigionieri, malamente rinchiusi da un filo spinato, finalmente riposano, coprendosi di terriccio e foglie, e mangiano, erbe e cortecce bollite.
Poi, per miracolo, arrivano i pacchi della Croce Rossa. Ma per stomaci così vuoti non è facile digerire quel cibo volutamente sostanzioso, calorico. La maggior parte si sente male e vomita. Intanto le SS vanno e vengono, impazzite come formiche. Poi non tornano più. Spariti.
E i prigionieri aspettano.
Aspettano gli ordini, perché oramai hanno imparato a loro spese che non possono pensare, ma solo ubbidire. Agire senza un comando preciso delle SS significa morire. E loro non vogliono, non ora. E così continuano ad aspettare e non sanno di essere già liberi.
I russi e gli americani arriveranno con la bellissima notizia il 29 aprile e poi continueranno a trovare gruppi di prigionieri abbandonati nei boschi del Mecleburgo (molto a nord di Berlino) fino alla prima settimana di maggio (oltre a stanare le SS che si stavano nascondendo nelle fattorie, indossando gli abiti degli uomini che non erano più tornati dal fronte).
I sopravvissuti vengono riportati al Campo di Sachsenhausen che è stato trasformato in un gigantesco ospedale all’aria aperta: pare grottesco ma in fondo era l’unica struttura ancora in piedi adatta ad alloggiare un così gran numero di persone.
Qui gli ex-internati possono riposare, mangiare (poco, piano), ricevere iniezioni di vitamine ed essere curati dalle malattie contratte durante la prigionia. Li vediamo nelle fotografie stesi al sole, magrissimi, o, per i più vigorosi, impegnati a raccontare ai militari russi quello che avevano visto fare dentro il campo, indicando la funzione di ogni edificio, elencando i soprusi subiti dai nazisti e i nomi dei compagni morti.
E poi, finalmente, a inizio estate possono tornare a casa.
Una delle foto più belle di quei mesi estivi ritrae due uomini passeggiare a braccetto sul Ku’damm, in mezzo alle macerie di Berlino.
Indossano il cappello, hanno un bastone elegante, ma sotto ostentano con orgoglio la divisa del lager: forse avrebbero potuto cambiarsi i pantaloni e invece per loro, quelle righe terribili, sono ora il segno evidente della loro vittoria contro chi li voleva sterminare. E il loro sorriso: un trionfo.
Purtroppo la storiografia di quei mesi, a volte anni, di liberazioni e fortunosi viaggi verso casa è quanto mai scarna. Ci piace forse di più conoscere le fasi della guerra minuto per minuto, indagare i crimini e le degenerazioni dei nazisti e trascuriamo le vicende della pace, le storie minime e grandiose di chi è sopravvissuto e dal cuore della Germania è partito – spesso solo – per tornare in madrepatria, sperando che ci fosse ancora qualcuno ad aspettarlo.
Tutto quel sapere storico è custodito nelle parole di chi ha trovato la forza d’animo di raccontare. E se il vostro nonno o bisnonno ve lo vuole ripetere per l’ennesima volta, fategli un regalo, che è un regalo anche per la storia dell’Europa: ascoltatelo, memorizzate e – quando potete – raccontate la sua storia. È forse il solo vero modo di celebrare l’aprile delle liberazioni.
“L’Europa del futuro non può esistere senza commemorare tutti coloro, indipendentemente dalla loro nazionalità, che furono uccisi in quel momento con totale disprezzo e odio, che furono torturati a morte, affamati, uccisi nelle camere a gas e impiccati.”
Andrzej Szczypiorski, prigioniero del Campo di concentramento di Sachsenhausen, dal suo discorso commemorativo del 1995.
Visita guidata in italiano del Campo di Concentramento di Sachsenhausen
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